Mentre i media ufficiali italiani si profondono in ogni sforzo - con estrema efficacia - per avvelenare i pozzi e intorbidare le acque di un dibattito che dovrebbe essere serissimo, come la recente pandemia, continuano i tentativi di spin che tentano di offrirsi una copertura mediante la scienza (o, piuttosto, la Scienza) per eterodirigere l’opinione pubblica verso l’approvazione delle decisioni del governo.
L’ultimo, in ordine temporale, è il tentativo di far interiorizzare il concetto che “si riaprirà quando lo consentiranno i dati”. Il primo a far partire questa idea è stato, in una recente conferenza stampa, lo stesso presidente del Consiglio dei ministri italiano, sicuramente imbeccato da uno dei suoi ministri e dal sottogoverno che ruota attorno a questo.
La grossolanità del ragionamento è palese: in realtà, si presenta un’evidente inversione del ragionamento, in quanto la normalità prevederebbe che si chiuda se i dati empirici dimostrano la necessità di chiudere. Se chiudere fosse dimostrato utile a contenere il contagio. Questo, però, ci allontanerebbe dai veri punti focali della recente politica sanitaria dei governi italiani succedutisi tra il 2020 e il 2021.
Innanzitutto, non deve sfuggire l’improprio utilizzo del termine “dati”: con quel termine si etichetta l’indice di diffusione Rt, che non è misurabile in sé, ma deve esser calcolato (con relativo intervallo di confidenza). Non mi soffermo sui dettagli del calcolo dell’Rt, giacché l’ISS, sul suo sito, dà delucidazioni sul relativo calcolo. Lo stesso ISS fornisce l’algoritmo utilizzato per il calcolo dell’Rt. Secondo i dati aggiornati al 14 aprile, l’Rt ha avuto questo sviluppo.
I dubbi che sorgono, e che i giornalisti danno per verità assodate, sono di duplice natura.
Qui di seguito proveremo a rispondere alla prima domanda, riservando alla risposta della seconda un ulteriore articolo.
Innanzitutto, sarà necessario procurarsi dei dati (dati veri o, per lo meno, quanto più vicini a dati affidabili) che descrivano gli interventi di restrizione come misura di rallentamento del contagio. Fortunatamente, l’università di Oxford, evidentemente preparata da tempo a eventi pandemici, che paiono interessarla parecchia, ha raccolto le comunicazioni ufficiali relative agli interventi non farmaceutici di lotta al contagio.
Il prodotto oxoniense più pregevole è è una base di dati, in cui hanno registrato le misure non farmaceutiche di contenimento della pandemia. Su tutto svetta lo Stringency Index, un indice sintetico che descrive la severità delle misure di contenimento in modo qualitativo e che si accompagna ai dati quantitativi sul numero di misure di intervento attuate dai vari governi in giro per il mondo. L’andamento, per il nostro paese, è indicato nel grafico seguente.
Ad una rapida occhiata, le due curve sembrano essere lontanissime parenti, né si denota qualche regolarità. Infatti, se si calcola la correlazione, si ritrova che
vi è correlazione statisticamente significativa tra l’Oxford Stringency Index e il movimento dell’indice di riproduzione sebbene di entità abbastanza lieve. Siccome, per gli scopi di questo articolo, non mettiamo in discussione né la validità dell’Rt come strumento descrittivo dei contagi, né la validità del lavoro degli studiosi di Oxford, dobbiamo ammettere che non abbiamo prove che le misure restrittive nel loro complesso abbiano impatti misurabili sull’evoluzione epidemica.
Voglio chiarire questo punto per evitare travisamenti di qualsiasi genere tra opposte tifoserie. Qui non mi interessa capire se Rt sia un indice affidabile dell’evoluzione dei contagi né se l’Oxford Stringency Index rappresenti affidabilmente l’evoluzione delle misure restrizioni che i governi hanno impiegato contro i loro cittadini. Per il momento, mi muoverò in una cornice perfettamente ortodossa.
Una critica, per altro più che giustificata, riguarda il ritardo temporale tra l’intervento e l’efficacia dello stesso. Supponendo un tempo di incubazione della malattia di cinque giorni, se chiudo la gente in casa da lunedì, mi attendo che, le persone che si sarebbero infettate lunedì e sarebbero risultate positive sabato non lo risultino più, perché chi risulterà positivo tra lunedì e venerdì si sarà contagiato prima di lunedì cioè prima dell’implementaione delle misure. Serve, quindi, una correlazione incrociata, per vedere se, nel tempo, l’effetto delle misure restrittive si dispiega sul contagio.
Come si vede, un effetto concreto e significativo, per quanto non risolutivo, lo si ottiene. A occhio, dopo circa quindici giorni, la variabilità delle misure restrittive spiega circa un terzo della variabilità dell’indice Rt; il movimento, chiaramente, è contrario (l’incremento dello Stringency Index corrisponde a un decremento dell’indice di riproducibilità. Si deve, però, fare attenzione al fatto che, all’interno dell’Oxford Stringency Index ci sono tutti gli interventi, da quelli teoricamente più ragionevoli (come mascherine in ambienti chiusi o distanziamento) a quelli vistosamente più inutili (come mascerine in ambienti aperti o coprifuoco), passando per quelli più controversi (come, appunto le serrate).
Sarebbe, qindi, necessario determinare il reale peso dei lockdown nelle variazioni dell’Rt e, per questo compito, viene incontro la base dati ACAPS.
E, per verificare l’efficacia intertemporale delle misure
Certo, si tratta di un risultato importante ma, in un periodo di diffusione del contagio molto più tranquillo a solo quella relativa a tre mesi fa, nulla di eclatante e nulla di cui stracciarsi le vesti, considerando che esistono differenti vaccini efficaci e molteplici farmaci che, se non risolutivi, riducono la letalità e i tempi di ospedalizzazione. Allora perché questa reiterata volontà di mantenere le restrizioni?
La risposta più semplice è che il lockdown è la prosecuzione dell’austerità con altri mezzi. Non è un caso che preminenti organizzazioni sovranazionali premano per il mantenimento di serrate e chiusure pressocché a tempo indefinito. Le stesse organizzazioni che, da anni, premono per tagli della spesa pubblica e inasprimenti fiscali - ma non per le persone giuridiche internazionali, per cui si richiedono trattamenti fiscali di favore.
Su tutti svetta l’OMS, che, dopo aver imposto le fallimentari politiche sanitarie a base di vaccini e generici ai paesi in via di sviluppo, ora vede la possibilità di imporle anche ai paesi sviluppati. E, come la vicenda di SARS-CoV-2 dimostra, l’OMS è assolutamente impermeabile ai risultati sanitari bensì interessata solo al contenimento della spesa sanitaria dei paesi.
Quindi, c’è il Fondo Monetario Inernazionale, se la testimonianza del presidente della Russia Bianca fosse veritiera. Personalmente, non faccio fatica a credergli, giacché descrive obiettivi e metodi tipici di quell’istituzione.
Infine l’Unione Europea, sotto le sue proteiformi epifanie come Commissione, Agenzia del Farmaco e Consiglio, le cui inestinguibili brame di tagliare i bilanci degli stati sono ben note.
Insomma, è scienza solo se austera, da mattina fino a sera. E dei malati…